Condivido questo bellissimo post di Factanza sui pregiudizi legati agli psicofarmaci, perché è un argomento che mi capita di affrontare spesso in terapia. Ne approfitto per ricordare che le uniche persone che possono prescrivere psicofarmaci sono professionisti che provengono dalla facoltà di Medicina, quindi medici o psichiatri, non psicolog3 e psicoterapeut3 provenienti dalla facoltà di Psicologia. Tuttavia, quest3 ultim3 possono valutare insieme alla persona se possa avere senso avvalersi del consiglio di altr3 specialist3 per un eventuale supporto farmacologico. Mi capita perciò di frequente che fin dal primo colloquio le persone si dichiarino contrarie alla possibilità di avvalersi di un supporto farmacologico.
A volte questa paura è data da esperienze pregresse che si sono rivelate deludenti (spesso in quei casi il farmaco era stato prescritto dal medico di base o da unə psichiatra che aveva visto la persona soltanto una volta): l3 pazienti lamentano di “non essersi sentit3 ascoltat3” o “compres3” da chi gliel’aveva prescritto e di aver deciso di interrompere precocemente l’assunzione del farmaco o di non cominciare proprio la terapia consigliata. In altri casi, la diffidenza si basa su una conoscenza indiretta più o meno approfondita degli psicofarmaci e su informazioni confuse o molto antiquate sugli effetti di tali sostanze sulle facoltà mentali delle persone. Ci sono poi casi di persone che hanno visto situazioni complesse di persone a loro vicine, che hanno assunto psicofarmaci, traendone delle conclusioni che le hanno spaventate. Nella restante percentuale delle persone, la paura ha a che fare con questioni valoriali che riguardano il “volercela fare da sol3“, l’associazione tra l’assunzione di farmaci e la gravità di una sintomatologia (“non sono così grave, non mi servono“!) o un approccio più genericamente contrario all’assunzione di “sostanze chimiche” in generale.
Posto che naturalmente la scelta rispetto alla terapia spetta sempre allə paziente, un buon consenso informato dovrebbe comprendere in quei casi una spiegazione sul fatto che sia la psicoterapia che gli psicofarmaci presentano dei limiti rispetto alla loro possibilità di efficacia. Se è vero che prescrivere un farmaco senza instaurare un minimo di relazione in grado di accogliere queste paure e di far sentire la persona compresa e ascoltata non ha molta utilità, è vero anche che in alcuni casi la relazione psicoterapeutica senza il farmaco rischia di rivelarsi poco efficace per lə paziente.
È fondamentale quindi che come psicoterapeut3 ci si adoperi per de-stigmatizzare l’uso degli psicofarmaci in terapia e per promuovere una diversa visione rispetto a chi ne fa uso: si parla di milioni di persone che assumono, spesso con vergogna, farmaci fondamentali per il mantenimento del proprio benessere, che riuscirebbero probabilmente a portare avanti con maggiore efficacia il loro percorso se ci fosse rispetto a questo una diversa concezione a livello sociale.
Per molte persone è difficile accettare d’aver bisogno di aiuto, poiché nella nostra società ciò spesso è visto come sinonimo di debolezza. Sarebbe importante invece decostruire questa immagine per arrivare a comprendere come l’adesione ad una terapia, anche farmacologica, possa rappresentare un gesto di cura verso se stess3, una conquista fondamentale in qualsiasi percorso di terapia.
Molte delle credenze riguardo gli psicofarmaci, inoltre, dipendono da informazioni non corrette riguardo ad essi, per esempio la convinzione che portino ad assuefazione, scarsa lucidità o stati catatonici. Gli psicofarmaci richiedono un’assunzione controllata poiché possono avere effetti collaterali ed effetti indesiderati nelle prime fasi di assunzione o quando vengono sospesi (soprattutto se ciò viene fatto improvvisamente) ma se si seguono le indicazioni dellə professionista di riferimento non sono rischiosi e anzi aiutano la persona a recuperare il proprio equilibrio. Per raggiungere gli effetti desiderati può essere necessario assumere il farmaco regolarmente per mesi e poi effettuare un mantenimento della terapia per un altro periodo di tempo prima di essere sospesi gradualmente, sempre seguendo indicazioni mediche.
Non c’è ragione di temere per la propria salute né tantomeno per la propria personalità o coscienza: i farmaci non alterano il senso di sé, aiutano semplicemente la persona a regolare stati emotivi che stanno compromettendo in modo invalidante il suo benessere, rendendo anche più semplice il lavoro che viene fatto in psicoterapia, che resta comunque fondamentale.
I pregiudizi che ruotano attorno alla salute mentale sono ancora tanti, è fondamentale adoperarsi per costruire nuovi significati e un nuovo senso della cura di sé.
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